martedì 2 febbraio 2016

Come l'ISIS fa soldi con l'arte - Intervista a Fabio Isman, esperto di ricettazione di opere d'arte

Articolo pubblicato il 30 gennaio 2016 su La Voce di New York



Vi spiego come l’ISIS fa soldi con l’arte
Intervista a Fabio Isman, esperto di ricettazione di opere d'arte: l'ISIS è una grave minaccia

Il traffico di opere d'arte rende più della droga e si basa su una struttura gerarchicamente molto ben definita e funzionale alla diffusione degli oggetti. “La comunità internazionale deve fare prevenzione, cominciando con l’istituzione dei Caschi blu della Cultura, come richiesto dall’Italia”

di Ilaria M. P. Barzaghi -
C’è profonda preoccupazione per la sistematica devastazione di opere d’arte e siti archeologici nei territori controllati dall’ISIS, organizzazione che si dichiara intenzionata a cancellare tutte le testimonianze iconografiche, artistiche, culturali di civiltà, ritenute contrarie alla vera fede. La comunità internazionale è stata particolarmente scossa dagli scempi operati a Palmira, dove è stato brutalmente assassinato l’archeologo Khaled al-Asaad, 82 anni, grande studioso che ha valorizzato e difeso a costo della vita il patrimonio culturale della città siriana in cui era nato.
Ma c’è anche altro, di cui si parla meno: la distruzione di copie di opere d’arte a scopo propagandistico (sono comunque immagini che testimoniano una cultura) e soprattutto le finte distruzioni o distruzioni parziali che servono a coprire il commercio illegale delle opere d’arte trafugate, fonte di sovvenzionamento per l’ISIS insieme al petrolio.
Si stima che il traffico di opere d’arte renda più del traffico di droga, ed è certo che provochi un allarme sociale molto minore: è ancora decisamente bassa, inadeguata, la percezione dei danni patrimoniali e culturali che produce (i contesti da cui si prelevano i pezzi da rivendere vengono irreversibilmente cancellati e resi illeggibili).
Conosce molto bene questo fenomeno Fabio Isman, monumentale giornalista di lungo corso – notissimo tra l’altro per aver pubblicato nel 1980 sul Il Messaggero alcuni estratti degli interrogatori di Patrizio Peci (il primo pentito delle BR) – che da decenni se ne occupa con competenza e istinto da segugio. Gli chiediamo perciò di aiutarci a capire meglio i termini del problema in questa fase storica.
Il mercato internazionale è in grado di assorbire questi reperti archeologici trafugati? Chi li compra?
“Il mercato è sempre pronto a prendere nuova ‘roba’. Non più i vecchi, grandi musei, che ormai si sono dati qualche regola (tranne che in Italia…), ma le case d’asta internazionali, che nascondono la provenienza degli oggetti (o nel migliore dei casi sono reticenti) e di fatto sono in grado in questo modo di ‘ripulire’ gli oggetti ricettandoli (come in altri contesti si lavano i soldi sporchi nda.). Poi ci sono le nuove frontiere del mercato, ‘nuovi’ stati interessati: in Oriente, nell’Europa dell’Est, tra i paesi balcanici. Soprattutto, è un mercato a cui non è affatto difficile far assorbire i pezzi che danno meno nell’occhio. Basti pensare che solo dall’Italia approssimativamente tra il 1970 e il 2000 sono stati trafficati circa un milione e mezzo di pezzi scavati illegalmente, secondo una stima dell’Università di Princeton”.
Tu hai studiato molto a fondo le dinamiche del mercato clandestino delle opere d’arte: quali ritieni siano gli strumenti che la comunità internazionale ha a disposizione per intercettare questi oggetti e impedire che siano commercializzati (rendendo così inutile il loro trafugamento)?
La comunità internazionale deve decidere di fare attività preventiva, cominciando con l’istituzione dei Caschi blu della Cultura, come richiesto dall’Italia. E naturalmente ha la massima importanza il controllo del territorio, anche dal cielo, visto che ormai i mezzi ci sono tutti: si possono usare i satelliti e i droni, anche nel caso di zone pericolose”.
Come giornalista di grande esperienza ritieni che i mass media stiano dando la giusta attenzione a quanto sta avvenendo? C’è percezione della gravità della situazione nell’opinione pubblica (in Italia e nel mondo) a tuo parere?
Soprattutto all’estero c’è senz’altro un forte allarme per la situazione di grave minaccia al patrimonio culturale nei territori controllati dal Daesh (preferisco chiamarlo così anziché ISIS, perché non è un vero stato islamico). Per quanto riguarda l’Italia, da noi non c’è assolutamente percezione della gravità di quanto è avvenuto e avviene nel nostro paese”.
Nel tuo libro I predatori dell’arte perduta. Il saccheggio dell’archeologia in Italia ricostruisci molto dettagliatamente il saccheggio organizzato su vasta scala nel nostro paese, la cosiddetta grande razzia, nel corso di circa 30 anni (1970-2000). Cos’è cambiato, com’è la situazione in Italia adesso?
Gli scavi clandestini continuano, non si sono mai fermati, così come il mercato illegale. Il mestiere del tombarolo è una piaga endemica, forse è questo il mestiere più antico del mondo… Il fenomeno, dopo la forte azione di contrasto degli ultimi anni è meno ingente, ma nelle aste il mercato è in ripresa. Quando nel 1971 il celebre Cratere di Eufronio (grande ceramista attico attivo tra 520 e 490 a.C., nda), portato via da Cerveteri è stato venduto al Metropolitan per un milione di dollari (poi restituito all’Italia nel 2008, nda.), hanno capito che si apriva un mercato illegale dalle possibilità straordinarie, in cui si sono buttati in molti. Ora grandi musei come il Met e il Getty (il caso in assoluto più eclatante), non comprano più (sono stati anzi messi nelle condizioni di restituire almeno una parte delle opere di provenienza illecita), ma tantissimi privati sì. Sappiamo da parecchie indagini che esistevano (esistono) molti altri magazzini pieni zeppi di opere che non sono mai stati scoperti”.
La figura del tombarolo è malintesa. Si pensa spesso a una persona modesta che arrotonda scavando e portando alla luce qualche coccio o oggetto come il principale responsabile del traffico di reperti archeologici scavati di frodo. Ma non ci sono solo i piccoli operai dello scavo. Tu parli di una “piramide” di attori con ruoli gerarchicamente ben definiti. E pubblichi anche un vero e proprio organigramma. Di cosa si tratta?
Effettivamente esiste una struttura gerarchicamente molto ben definita, una piramide alla cui base ci sono i piccoli scavatori, che parlano in dialetto, sopra di loro i mediatori locali, poi i mediatori internazionali, e infine i mercanti che trattano con gli acquirenti, in grado di operare ad altissimo livello, di agire internazionalmente, che lavorano in inglese. È una configurazione assolutamente funzionale alla diffusione degli oggetti. È stato trovato un documento preziosissimo, un organigramma scritto a mano, sequestrato dai Carabinieri nel 1996, che ha consentito di comprendere l’organizzazione aldilà di ogni dubbio”.
In questo tipo di indagini, come in tutte quelle relative a una rete criminale organizzata (ovvero ai reati associativi), sono state decisive le intercettazioni.
Assolutamente fondamentali. Perché esiste il mafioso pentito, esiste il terrorista pentito, che parlano. Ma non esiste il tombarolo pentito e l’unico modo per scalfire la straordinaria omertà di questo ambiente sono le intercettazioni. Oltre tutto molti sono i legami e le compromissioni con la mafia. Non potersi più avvalere di questo strumento comporterebbe un danno enorme, la paralisi della lotta a questo tipo di attività”.
A proposito del legame tra terrorismo e traffico clandestino di opere d’arte, c’è un precedente inquietante: sembra che Mohamed Atta, uno degli attentatori dell’11 settembre, stesse cercando di vendere reperti afghani per finanziare l’acquisto di un aereo. Questa vicenda è stata chiarita? Si è saputo se è stato poi comprato un aereo che però non è stato usato nell’attentato?
Si sa che Atta stava cercando di capire come piazzare dei reperti archeologici afghani in Germania, circostanza che è stata testimoniata da una docente di Gottinga. Ma non è stato dimostrato altro. Gli aerei usati l’11 settembre, come sappiamo, erano di linea. Certamente l’arte è una risorsa finanziaria importante, sia per i terroristi che per la mafia. I Carabinieri ritengono che la Natività di Caravaggio, rubata a Palermo nel 1969, sia nelle mani della mafia. E pensiamo anche alla collezione di Ernesto Diotallevi, il boss della Magliana, sequestrata nel 2013: comprendeva tra l’altro quadri di Balla e Schifano, per un valore di circa un milione di euro”.
Cosa resta da fare sia su scala nazionale che internazionale?
Vanno cambiate le leggi. Rutelli e Veltroni avevano preparato degli articolati di legge che poi sono stati lasciati cadere: nel nostro paese, se rubi una mela o un paio di jeans, vai in galera; se rubi un reperto archeologico, no. Il reato di ricettazione deve essere permanente, in modo che i tempi per la prescrizione siano più lunghi. Va intensificato il controllo del territorio, anche satellitare; bisogna smettere di ridurre il numero dei Carabinieri del Comando per la Tutela del Patrimonio Culturale, tagliati dalla spending review. E anche la magistratura ha bisogno di interventi. Un magistrato come Paolo Ferri, che ha inquisito 2.500 indagati su 10.000 (un quarto!), è stato uno straordinario esperto di questo tipo di reati, bravissimo con le rogatorie internazionali, ma ora è in pensione: bisogna formare, allevare una nuova generazione di magistrati specializzati e aprire delle sezioni specifiche per questo ambito. Anche le norme internazionali vanno riviste: è decisamente necessaria una maggiore collaborazione tra Stati, anche ai fini di una omogeneità giuridica che tuttora non c’è. C’è ancora molto da fare. Il problema è che i beni culturali… non votano”.
Il tuo ultimo libro Andare per le città ideali (in uscita a fine gennaio) è una panoramica sull’utopia per così dire “incarnata” in un progetto urbanistico in Italia, dall’antichità, attraverso la ricchezza delle realizzazioni del Rinascimento, fino al Novecento con i villaggi operai come Crespi d’Adda e le città nuove nate dal fascismo delle bonifiche. Qual è la lezione che queste diverse declinazioni dell’utopia possono trasmettere alla città contemporanea, ai progettisti del XXI secolo? E come dialogano con il territorio?
Il dialogo con il territorio è splendido. Le città ideali sono abitate, e vive. Negli ultimi anni per fortuna sono di nuovo apprezzati i valori paesistici, c’è un’attenzione molto più forte ai paesaggi: queste città hanno smesso di essere cose ingombranti, come è successo in passato, e oggi si ha la consapevolezza che sono fonti di ispirazione e bellezze da salvare”.

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