Vi spiego come l’ISIS fa soldi con l’arte
Intervista a Fabio Isman, esperto di ricettazione di opere d'arte: l'ISIS è una grave minaccia
Il traffico di opere d'arte
rende più della droga e si basa su una struttura gerarchicamente molto
ben definita e funzionale alla diffusione degli oggetti. “La comunità
internazionale deve fare prevenzione, cominciando con l’istituzione dei
Caschi blu della Cultura, come richiesto dall’Italia”
C’è profonda
preoccupazione per la sistematica devastazione di opere d’arte e siti
archeologici nei territori controllati dall’ISIS, organizzazione che si
dichiara intenzionata a cancellare tutte le testimonianze iconografiche,
artistiche, culturali di civiltà, ritenute contrarie alla vera fede. La
comunità internazionale è stata particolarmente scossa dagli scempi
operati a Palmira,
dove è stato brutalmente assassinato l’archeologo Khaled al-Asaad, 82
anni, grande studioso che ha valorizzato e difeso a costo della vita il
patrimonio culturale della città siriana in cui era nato.
Ma c’è anche altro, di cui si parla meno: la distruzione
di copie di opere d’arte a scopo propagandistico (sono comunque immagini
che testimoniano una cultura) e soprattutto le finte distruzioni o
distruzioni parziali che servono a coprire il commercio illegale delle
opere d’arte trafugate, fonte di sovvenzionamento per l’ISIS insieme al
petrolio.
Si stima che il traffico di opere d’arte renda più del
traffico di droga, ed è certo che provochi un allarme sociale molto
minore: è ancora decisamente bassa, inadeguata, la percezione dei danni
patrimoniali e culturali che produce (i contesti da cui si prelevano i
pezzi da rivendere vengono irreversibilmente cancellati e resi
illeggibili).
Conosce molto bene questo fenomeno Fabio Isman,
monumentale giornalista di lungo corso – notissimo tra l’altro per aver
pubblicato nel 1980 sul Il Messaggero alcuni estratti degli
interrogatori di Patrizio Peci (il primo pentito delle BR) – che da
decenni se ne occupa con competenza e istinto da segugio. Gli chiediamo
perciò di aiutarci a capire meglio i termini del problema in questa fase
storica.
Il mercato internazionale è in grado di assorbire questi reperti archeologici trafugati? Chi li compra?
“Il mercato è sempre pronto a prendere nuova ‘roba’. Non
più i vecchi, grandi musei, che ormai si sono dati qualche regola
(tranne che in Italia…), ma le case d’asta internazionali, che
nascondono la provenienza degli oggetti (o nel migliore dei casi sono
reticenti) e di fatto sono in grado in questo modo di ‘ripulire’ gli
oggetti ricettandoli (come in altri contesti si lavano i soldi sporchi nda.).
Poi ci sono le nuove frontiere del mercato, ‘nuovi’ stati interessati:
in Oriente, nell’Europa dell’Est, tra i paesi balcanici. Soprattutto, è
un mercato a cui non è affatto difficile far assorbire i pezzi che danno
meno nell’occhio. Basti pensare che solo dall’Italia
approssimativamente tra il 1970 e il 2000 sono stati trafficati circa un
milione e mezzo di pezzi scavati illegalmente, secondo una stima
dell’Università di Princeton”.
Tu hai studiato molto a fondo le dinamiche del mercato
clandestino delle opere d’arte: quali ritieni siano gli strumenti che la
comunità internazionale ha a disposizione per intercettare questi
oggetti e impedire che siano commercializzati (rendendo così inutile il
loro trafugamento)?
La comunità internazionale deve decidere di fare attività
preventiva, cominciando con l’istituzione dei Caschi blu della Cultura,
come richiesto dall’Italia. E naturalmente ha la massima importanza il
controllo del territorio, anche dal cielo, visto che ormai i mezzi ci
sono tutti: si possono usare i satelliti e i droni, anche nel caso di
zone pericolose”.
Come giornalista di grande esperienza ritieni che i
mass media stiano dando la giusta attenzione a quanto sta avvenendo? C’è
percezione della gravità della situazione nell’opinione pubblica (in
Italia e nel mondo) a tuo parere?
Soprattutto all’estero c’è senz’altro un forte allarme per
la situazione di grave minaccia al patrimonio culturale nei territori
controllati dal Daesh (preferisco chiamarlo così anziché ISIS, perché
non è un vero stato islamico). Per quanto riguarda l’Italia, da noi non
c’è assolutamente percezione della gravità di quanto è avvenuto e
avviene nel nostro paese”.
Nel tuo libro I predatori dell’arte perduta. Il saccheggio dell’archeologia in Italia ricostruisci
molto dettagliatamente il saccheggio organizzato su vasta scala nel
nostro paese, la cosiddetta grande razzia, nel corso di circa 30 anni
(1970-2000). Cos’è cambiato, com’è la situazione in Italia adesso?
Gli
scavi clandestini continuano, non si sono mai fermati, così come il
mercato illegale. Il mestiere del tombarolo è una piaga endemica, forse è
questo il mestiere più antico del mondo… Il fenomeno, dopo la forte
azione di contrasto degli ultimi anni è meno ingente, ma nelle aste il
mercato è in ripresa. Quando nel 1971 il celebre Cratere di Eufronio
(grande ceramista attico attivo tra 520 e 490 a.C., nda), portato via da Cerveteri è stato venduto al Metropolitan per un milione di dollari (poi restituito all’Italia nel 2008, nda.),
hanno capito che si apriva un mercato illegale dalle possibilità
straordinarie, in cui si sono buttati in molti. Ora grandi musei come il
Met e il Getty (il caso in assoluto più eclatante), non comprano più
(sono stati anzi messi nelle condizioni di restituire almeno una parte
delle opere di provenienza illecita), ma tantissimi privati sì. Sappiamo
da parecchie indagini che esistevano (esistono) molti altri magazzini
pieni zeppi di opere che non sono mai stati scoperti”.
La figura del tombarolo è malintesa. Si pensa spesso a
una persona modesta che arrotonda scavando e portando alla luce qualche
coccio o oggetto come il principale responsabile del traffico di reperti
archeologici scavati di frodo. Ma non ci sono solo i piccoli operai
dello scavo. Tu parli di una “piramide” di attori con ruoli
gerarchicamente ben definiti. E pubblichi anche un vero e proprio
organigramma. Di cosa si tratta?
Effettivamente esiste una struttura gerarchicamente molto
ben definita, una piramide alla cui base ci sono i piccoli scavatori,
che parlano in dialetto, sopra di loro i mediatori locali, poi i
mediatori internazionali, e infine i mercanti che trattano con gli
acquirenti, in grado di operare ad altissimo livello, di agire
internazionalmente, che lavorano in inglese. È una configurazione
assolutamente funzionale alla diffusione degli oggetti. È stato trovato
un documento preziosissimo, un organigramma scritto a mano, sequestrato
dai Carabinieri nel 1996, che ha consentito di comprendere
l’organizzazione aldilà di ogni dubbio”.
In questo tipo di indagini, come in tutte quelle
relative a una rete criminale organizzata (ovvero ai reati associativi),
sono state decisive le intercettazioni.
Assolutamente fondamentali. Perché esiste il mafioso
pentito, esiste il terrorista pentito, che parlano. Ma non esiste il
tombarolo pentito e l’unico modo per scalfire la straordinaria omertà di
questo ambiente sono le intercettazioni. Oltre tutto molti sono i
legami e le compromissioni con la mafia. Non potersi più avvalere di
questo strumento comporterebbe un danno enorme, la paralisi della lotta a
questo tipo di attività”.
A proposito del legame tra terrorismo e traffico
clandestino di opere d’arte, c’è un precedente inquietante: sembra che
Mohamed Atta, uno degli attentatori dell’11 settembre, stesse cercando
di vendere reperti afghani per finanziare l’acquisto di un aereo. Questa
vicenda è stata chiarita? Si è saputo se è stato poi comprato un aereo
che però non è stato usato nell’attentato?
Si sa che Atta stava cercando di capire come piazzare dei
reperti archeologici afghani in Germania, circostanza che è stata
testimoniata da una docente di Gottinga. Ma non è stato dimostrato
altro. Gli aerei usati l’11 settembre, come sappiamo, erano di linea.
Certamente l’arte è una risorsa finanziaria importante, sia per i
terroristi che per la mafia. I Carabinieri ritengono che la Natività
di Caravaggio, rubata a Palermo nel 1969, sia nelle mani della mafia. E
pensiamo anche alla collezione di Ernesto Diotallevi, il boss della
Magliana, sequestrata nel 2013: comprendeva tra l’altro quadri di Balla e
Schifano, per un valore di circa un milione di euro”.
Cosa resta da fare sia su scala nazionale che internazionale?
Vanno cambiate le leggi. Rutelli e Veltroni avevano
preparato degli articolati di legge che poi sono stati lasciati cadere:
nel nostro paese, se rubi una mela o un paio di jeans, vai in galera; se
rubi un reperto archeologico, no. Il reato di ricettazione deve essere
permanente, in modo che i tempi per la prescrizione siano più lunghi. Va
intensificato il controllo del territorio, anche satellitare; bisogna
smettere di ridurre il numero dei Carabinieri del Comando per la Tutela
del Patrimonio Culturale, tagliati dalla spending review. E anche
la magistratura ha bisogno di interventi. Un magistrato come Paolo
Ferri, che ha inquisito 2.500 indagati su 10.000 (un quarto!), è stato
uno straordinario esperto di questo tipo di reati, bravissimo con le
rogatorie internazionali, ma ora è in pensione: bisogna formare,
allevare una nuova generazione di magistrati specializzati e aprire
delle sezioni specifiche per questo ambito. Anche le norme
internazionali vanno riviste: è decisamente necessaria una maggiore
collaborazione tra Stati, anche ai fini di una omogeneità giuridica che
tuttora non c’è. C’è ancora molto da fare. Il problema è che i beni
culturali… non votano”.
Il tuo ultimo libro Andare per le città ideali (in
uscita a fine gennaio) è una panoramica sull’utopia per così dire
“incarnata” in un progetto urbanistico in Italia, dall’antichità,
attraverso la ricchezza delle realizzazioni del Rinascimento, fino al
Novecento con i villaggi operai come Crespi d’Adda e le città nuove nate
dal fascismo delle bonifiche. Qual è la lezione che queste diverse
declinazioni dell’utopia possono trasmettere alla città contemporanea,
ai progettisti del XXI secolo? E come dialogano con il territorio?
Il dialogo con il territorio è splendido. Le città ideali
sono abitate, e vive. Negli ultimi anni per fortuna sono di nuovo
apprezzati i valori paesistici, c’è un’attenzione molto più forte ai
paesaggi: queste città hanno smesso di essere cose ingombranti, come è
successo in passato, e oggi si ha la consapevolezza che sono fonti di
ispirazione e bellezze da salvare”.
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