martedì 5 aprile 2016

Palmira ritorna patrimonio di tutti

L'articolo di Valentina Porcheddu per Il Manifesto 

Palmira ritorna patrimonio di tutti

La città liberata. Intervista a Maamoun Abdulkarim, direttore generale alle Antichità siriane: «Ripareremo ai danni inferti al sito dal Daesh. Ma prima dovremmo iniziare a parlare di ricostruzione culturale»

 
Soldati siriani tra le rovine di Palmira

«Palmira è tornata al patrimonio siriano e io ho ritrovato il senso del mio lavoro perché se in questi ultimi anni ho scelto di non abbandonare la Siria è proprio per non venir meno ai miei doveri di studioso e rivendicare i miei diritti di cittadino». A circa una settimana dalla cacciata dei miliziani del «califfo» Al-Baghdadi da Palmira – la città carovaniera iscritta dal 1980 alla lista dell’Unesco – Maamoun Abdulkarim ci parla al telefono da Damasco. Dalla voce appare sollevato sebbene la sua attitudine resti combattiva. Docente di archeologia romana presso l’Università di Damasco, Abdulkarim ricopre dal 2012 il ruolo di direttore generale alle Antichità e ai Musei siriani, missione che con l’inasprirsi della crisi e l’avanzata del sedicente Stato islamico ha richiesto coraggio, nervi saldi e fiducia in un futuro meno buio, nel quale uomini e pietre possano nuovamente porsi in dialogo col mondo.
Nell’intervista concessa al manifesto nel settembre 2015 definiva Palmira una città in ostaggio. Adesso che è stata liberata, si è già recato sul posto?
Non ancora ma un’equipe del Dgam (Directorate-General of Antiquities and Museums, ndr) è già in azione sul campo. Parallelamente si sta procedendo con lo sminamento perché – com’è noto – il progetto di Daesh era di far esplodere per intero il sito.
Sui media circolano immagini che mostrano lo stato delle rovine dopo l’occupazione dei jihadisti. Scenario non apocalittico ma che lascia ugualmente sgomenti per la gravità dei danni.
Occorre guardare a ciò che non abbiamo perso. Dal punto di vista architettonico, Palmira si conserva quasi integralmente. La cittadella – benché danneggiata dai combattimenti dell’ultimo periodo –, la grande strada colonnata, il tetrapilo, l’agorà, il Campo di Diocleziano, le terme e il santuario di Nabu sono scampati agli intenti distruttivi dell’Isis. Anche le torri funerarie meno elevate sono in piedi. Il paesaggio del sito è salvo, sebbene mutilo. Invece, gli scavi clandestini svolti da Daesh in collaborazione con criminali e «mafiosi» hanno devastato zone ancora da indagare.
In Europa, malgrado il conflitto siriano sia lungi dall’essere risolto, si parla già della ricostruzione di Palmira. È opportuno?
Da parte nostra, abbiamo individuato gli edifici colpiti dall’Isis che sarà possibile recuperare. Ad esempio, la scalinata e il podio del tempio di Bêl – la cui cella è saltata in aria – sono intatti, assieme alla porta monumentale. Anche le mura del recinto persistono. Le colonne non si sono frantumate ma solo «scomposte». Alcuni blocchi della decorazione sono integri e in situ. Secondo i primi riscontri, dunque, il 30% del tempio di Bêl potrà essere restaurato e si potrà eventualmente reintegrare con materiali estratti da cave locali. L’insieme delle operazioni andrà valutato da un comitato internazionale e sotto l’egida Unesco. Le responsabilità devono essere condivise proprio perché Palmira è patrimonio dell’umanità intera. Ma non abbiamo mai pensato di ricostruire da zero i monumenti, il nostro scopo è agire sulla base di presupposti scientifici.
In Italia è stato proposto di realizzare copie dei templi di Bêl e Baalshamin per mezzo di una mega stampante 3d…
La tecnologia 3d sarà senz’altro utile ma per lo studio architettonico finalizzato ai restauri. Le questioni inerenti il patrimonio siriano sono molto politicizzate e rischiano di distorcere la realtà. Per me Palmira appartiene a tutti i siriani, siano essi pro o contro l’attuale governo. Bisognerebbe iniziare a parlare di ricostruzione culturale, piuttosto. In questo senso sono grato specialmente ai colleghi italiani e tedeschi per non aver mai interrotto le relazioni con il Dgam e per averci anzi sostenuto. Sono anche commosso per la sensibilità con cui l’Italia ha voluto onorare – con numerose iniziative – la memoria di Khaled al-As’ad (il direttore delle antichità di Palmira ucciso dall’Isis lo scorso agosto,ndr).
Come rimedierete alle catastrofiche condizioni del museo di Palmira rivelateci dalle riprese post-liberazione?
Per fortuna Daesh non ha usato al museo di Palmira la violenza espressa a Mosul. Le statue che si vedono nelle foto sono quelle che non siamo riusciti a evacuare prima dell’arrivo dei miliziani. Molte sculture sono state sfigurate. Malgrado ciò, sarà possibile effettuare dei restauri persino dell’imponente Leone di Allat, la statua che si trovava all’ingresso ed è stata abbattuta ma non polverizzata.
Le risultano saccheggi?
No, perché prima del maggio 2015 avevamo messo in salvo gli oggetti facilmente commerciabili. Ai jihadisti non interessano le statue perché sono contro la loro ideologia iconoclasta. Cercano oro, argento, monete, vasi, vetri preziosi… Daesh ha venduto licenze di scavo a bande di criminali proprio per ricavarne tesori da immettere nel mercato clandestino. Un giorno potremo riportare i reperti trasferiti a Damasco a Palmira, ma bisognerà attendere la fine delle ostilità. Non solo a Tadmor. In tutta la Siria.

L’Italia a Bagdad «In prima fila per la cultura»

Articolo originale dal Corriere della Sera 5 aprile 2016 

L’impegno dell’Italia a sostegno della sicurezza e dello sviluppo dell’Iraq è stato ribadito nel corso della visita a Bagdad del sottosegretario agli Esteri, Vincenzo Amendola, che ieri nella capitale irachena ha incontrato il presidente della Repubblica, Fuad Masoum e il ministro degli Affari Esteri, Ibrahim al Jaafari. Gli interlocutori iracheni — ha fatto sapere la Farnesina — hanno ringraziato l’Italia per il fondamentale contributo di Roma nel contrasto all’Isis, nella stabilizzazione del Paese e nella tutela del suo patrimonio culturale. Inaugurando successivamente il nuovo Istituto culturale italo-iracheno per l’archeologia ed il restauro dei monumenti, Amendola (a destra nella foto) ha indicato come l’esemplare lavoro degli esperti e degli archeologi italiani in Iraq ben illustri il ruolo dell’Italia quale «superpotenza culturale», attenta alla valorizzazione del patrimonio delle grandi civiltà universali. All’inaugurazione era tra gli altri presente anche il viceministro per le Antichità, Qais Rasheed. L’Istituto, gestito dal Centro ricerche archeologiche e scavi di Torino e finanziato dal ministero degli Esteri, rappresenta un nuovo polo in grado di attivare percorsi di formazione a beneficio di funzionari iracheni e varie iniziative di natura culturale. Sarà inoltre un centro polifunzionale per l’organizzazione di progetti di ricerca e attività culturali.

lunedì 4 aprile 2016

Tra le rovine di Palmira per riscrivere la storia

da Internazionale

Tra le rovine di Palmira per riscrivere la storia
 

Palmira, Siria, 1 aprile 2016. L’automobile accelera, e il mio cuore batte sempre più forte. È domenica 27 marzo e sfrecciamo attraverso il deserto siriano diretti a Palmira, la celebre città dell’antichità dalla quale il gruppo Stato islamico (Is) è appena stato costretto a ritirarsi, dieci mesi dopo averla conquistata.
Le mie fonti hanno confermato che l’esercito siriano ha ripreso il controllo totale sulla città e sul vicino sito archeologico, risalente a oltre duemila anni fa. La notizia ha fatto il giro del mondo e l’Afp sarà la prima testata straniera a entrare a Palmira. Sono letteralmente sopraffatto dalla gioia. Non solo perché sto per realizzare uno scoop ma soprattuto perché ho potuto annunciare una notizia che da tanto tempo moltissime persone, in Siria e altrove, speravano di ascoltare.
Dopo un po’ il mio telefono comincia a suonare, senza interruzione. Sono i miei colleghi dell’ufficio di Beirut, i miei amici siriani rifugiati in Germania, in Norvegia, in Libano o in Turchia. Tutti mi fanno la stessa domanda: in che condizioni è il sito archeologico?
Non so ancora la risposta. E la verità è che ho paura di scoprirla.
Mentre ci avviciniamo a Palmira, vedo una nuvola di fumo nero che si alza al di sopra della città, testimonianza della feroce battaglia appena conclusa. Sono sommerso da un misto di emozioni tanto potenti quanto contraddittorie: gioia ma anche tristezza, ansia e apprensione.
I resti dell’arco di trionfo di Palmira, in Siria, il 31 marzo 2016. - Joseph Eid, Afp
I resti dell’arco di trionfo di Palmira, in Siria, il 31 marzo 2016. 
Gioia, perché sarò uno dei primi a entrare a Palmira e a raccontare al mondo quel che ho visto. Tristezza, perché inevitabilmente darò alla gente un primo assaggio delle distruzioni compiute dall’Is in questo straordinario sito. Ansia, perché io stesso ho paura di avere il cuore spezzato vedendo i danni. Tutte le comunicazioni tra la città e il resto del mondo sono state interrotte durante i combattimenti. In questo momento, non sappiamo neanche se i jihadisti hanno mantenuto la loro parola: se, prima di ritirarsi, hanno fatto esplodere fino all’ultimo monumento della vecchia città greco-romana.
E apprensione, perché entro in una città che fino a pochi giorni fa era ancora controllata dai combattenti dell’Is. Ho sentito naturalmente parlare del loro fanatismo e della loro abitudine di lasciare dietro di sé ogni sorta di trappola mortale, sotto forma di ordigni esplosivi improvvisati.
Come raccontare?
Tutte queste emozioni cominciano a svanire mano a mano che le mie preoccupazioni professionali tornano in primo piano. Verifico la batteria della macchina fotografica, del registratore e del telefono. Indosso un cappellino dell’Afp e impugno matita e bloc notes. Come racconterò questa storia? Come potrò trasmettere al mondo quel che sto per vedere?
Siamo ormai a cinquecento metri dalla città antica. Un primo colpo d’occhio in direzione del sito storico fa subito riaccelerare il mio battito cardiaco. È una visione reale? Quelle colonne sono ancora in piedi? E il teatro? E la cittadella? Intorno a me, osservo molta distruzione. Ma alcune cose sono ancora al loro posto, dove non mi aspettavo di trovare altro che un ammasso di macerie
Mi volto verso il mio accompagnatore militare siriano. “Posso andare a vedere le rovine?”. Scuote la testa. Impossibile, dice. “La città vecchia è piena di mine. È molto pericoloso. L’Is era qui solo qualche ora fa, non se lo dimentichi. Bisogna fare attenzione, molta attenzione”.
Film dell’orrore in una città fantasma
Non potendo accedere al sito archeologico, facciamo un giro nei quartieri residenziali di Palmira. È una città fantasma. L’atmosfera mi ricorda alcune scene di film dell’orrore di molto tempo fa. Una città con le strade piene di fumo. Niente è stato risparmiato. Ci sono carcasse di automobili in mezzo alla strada. Edifici demoliti, appartamenti devastati con le porte ancora aperte. Interi quartieri sono stati distrutti dalla guerra. Il silenzio è totale, lugubre, rotto soltanto dal rumore del vento e dalle sporadiche esplosioni in lontananza. L’aria del deserto solleva una polvere gialla e spessa.
I resti di una statua nella periferia di Palmira, in Siria, il 31 marzo 2016. - Joseph Eid, Afp
I resti di una statua nella periferia di Palmira, in Siria, il 31 marzo 2016. 
Mi ritrovo a esplorare in punta di piedi quello che un tempo era un complesso d’edifici residenziali. Do un’occhiata ai crateri lasciati da scontri d’artiglieria recentissimi. Non vedo nessuno. Eppure ci sono alcuni segni di vita: della mercanzia intonsa in piccoli negozi, mobili rimasti in appartamenti abbandonati. È come se gli abitanti se ne fossero andati all’improvviso senza fare le valigie. Quanto ai jihadisti, sembrano non aver lasciato niente, se non qualche bandiera nera e qualche pila di scartoffie amministrative.
Esplosioni lontane
In città avanzo con prudenza. Faccio attenzione a ogni passo, a causa delle mine. Mi sforzo di ascoltare il mio accompagnatore militare che mi suggerisce dove andare. Mi guardo intorno, alla ricerca di qualcuno, di qualsiasi persona in grado d’indicarmi dove mi trovo esattamente, di dirmi quale sia il nome della via in cui sto camminando. Con voce alta e forte chiedo: “C’è qualcuno?”. Ma l’unica risposta che ricevo sono sempre il vento e le esplosioni lontane.
Concludiamo la nostra “passeggiata” nei quartieri residenziali e ci ritroviamo sulla piazza principale della città. Cerco di chiamare l’ufficio dell’Afp per dare mie notizie e inviare alcune foto, ma invano. Non c’è campo. Mentre aspettiamo che l’esercito finisca di sminare la strada che conduce alla città antica, il clima si fa un po’ meno teso. Alcuni si mettono a sorseggiare un infuso d’erbe. Molti scattano delle foto ricordo di questo momento storico.
Soldati russi a Palmira, in Siria, il 31 marzo 2016. - Joseph Eid, Afp
Soldati russi a Palmira, in Siria, il 31 marzo 2016. 
Finalmente ci autorizzano a entrare nel sito. Cerco di non precipitarmi. Non solo per non mettere i piedi nel posto sbagliato ma anche per riempirmi gli occhi di quei monumenti, per cercare d’immaginare le centinaia e centinaia di battaglie e di disastri che hanno devastato questa città nel corso dei secoli, prima di finire nell’oblio. I drammi si dissolvono sempre. La terra, invece, resta dov’è. La storia rimane.
Montagne russe emotive
Faccio una pausa per scarabocchiare alcuni appunti sul mio taccuino, per fare una foto, per filmare. In realtà mi fermo così spesso che i miei colleghi finiscono per averne abbastanza di me e mi lasciano lavorare da solo, per conto mio.
Attraversare queste rovine archeologiche è come salire su delle montagne russe emotive. Proprio quando comincio a sentirmi al sicuro, quando la paura degli ordigni artigianali comincia ad abbandonarmi, il rumore d’una detonazione riecheggia in lontananza. Allora m’irrigidisco, e ricomincio a camminare con prudenza sul terreno sabbioso.
All’improvviso mi ritrovo nel celebre teatro romano di Palmira. È ancora in piedi. Sul mio viso si disegna un ampio sorriso di sollievo. Ma il sorriso sparisce poco dopo, quando scopro che l’Arco di trionfo è stato totalmente distrutto. Mi dirigo poi verso quello che un tempo era il tempio di Baal. Un’opera architettonica di enorme importanza, che mescolava gli stili greco, romano e mediorientale. Non ne rimane che un cumulo di pietre che si scaldano sotto il sole di mezzogiorno. Alcuni fiori gialli hanno invaso i detriti.
I resti della cella del tempio di Bel, a Palmira, in Siria, il 31 marzo 2016. - Joseph Eid, Afp
I resti della cella del tempio di Bel, a Palmira, in Siria, il 31 marzo 2016. 
Ed è solo l’inizio. Le torri funerarie sono state parzialmente demolite. Quasi dappertutto sono state abbattute delle colonne. Ma molte sono ancora in piedi, testimoni di tutto quello che è successo qui.
Tutto sommato la gioia prevale sulla tristezza. I danni sono pesanti, ma il sito archeologico è sopravvissuto. Festeggio questa constatazione nell’unico modo possibile in questo momento: con un autoscatto. Sorrido con il mio cappellino dell’Afp e fotografo me stesso in mezzo alle rovine.
Appena il mio telefono riesce a collegarsi alla rete, mi affretto a pubblicare questa foto su Twitter commentando: “L’Afp a Palmira”.
Mi ricordo che, da piccolo, facevo il gradasso coi miei amici dicendo che avevo visto Palmira, anche se non avevo che dei ricordi molto fumosi, privi di dettagli.
Oggi sono fiero d’aver visitato Palmira per la seconda volta. Sono fiero anche d’essere stato il primo corrispondente di una testata straniera ad arrivare sul luogo dopo la riconquista della città da parte delle forze siriane. Le mie immagini hanno fatto il giro del mondo.
Palmira è stato uno dei principali fari culturali dell’antichità. E, per me, questa città è diventata anche il principale traguardo della mia giovane carriera di giornalista. Ho cominciato questo lavoro da meno di un anno e l’aver già raccontato un evento importante come la riconquista di Palmira, strappata all’Is, rafforza la mia autostima. Non dimenticherò mai questa giornata.
Il mio soggiorno a Palmira finisce all’alba. Torniamo sui nostri passi, attraversiamo un posto di blocco governativo, e all’improvviso il mio telefono ricomincia a prendere. Dall’automobile in movimento comincio a trasmettere i miei racconti. Al contempo ricevo una valanga di messaggi dai miei colleghi. Rim, Loay e Youssef a Damasco. Rouba, Layal, Raba, Sammy e Joseph a Beirut. Sono tutti ansiosi di sapere quello che ho visto. Allora gli racconto tutto. Quando finalmente rientro a Damasco, dopo un passaggio a Homs, ricevo una chiamata della mia collega Maya da Beirut.
“Stiamo scrivendo la storia”, mi dice.
(Traduzione di Federico Ferrone)

Il collezionista di San Mauro: “Ho comprato un pezzo di Palmira non so come sia arrivato a Parigi”

Il collezionista di San Mauro: “Ho comprato un pezzo di Palmira non so come sia arrivato a Parigi”
Articolo originale da La Stampa
La lastra raffigura un Cesare su un triclinio con vicino un servo che gli versa il vino

Il reperto in mostra è una lastra di chiusura di una tomba


NOEMI PENNA
TORINO
Di Palmira abbiamo negli occhi le immagini della devastazione. Un’oasi nel deserto siriano, patrimonio mondiale dell’umanità, saccheggiato e distrutto dagli jihadisti del Califfato che hanno occupato l’antichissima città per dieci mesi. Uno scempio già accaduto nei siti archeologici di Hatra e Nimrud, in Iraq, dove con asce, picconi, bulldozer e kalashnikov sono stati distrutti reperti d’inestimabile valore. Ma uno di quei preziosi cimeli ora si trova più vicino che mai, a San Mauro, e da mercoledì lo si potrà anche ammirare in mostra a Palazzo Saluzzo di Paesana.  

IN ESPOSIZIONE  
Si tratta di una lastra di chiusura di una tomba di Palmira, probabilmente romana, risalente al terzo secolo dopo Cristo. Un bassorilievo con due figure incise: un Cesare su un triclinio, con accanto il suo giovane servo intento a versagli il vino . Un oggetto così pesante, e d’inestimabile valore, su cui aleggia un mistero: com’è arrivato in Europa? Quando e soprattutto con chi?  
Un enigma che affascina anche il suo attuale proprietario, il professor Maurizio Candiani, che lo ha acquistato a gennaio a Parigi, da una mercante d’arte di St-Germain-des-prés. «Una professionista seria che conosce bene i miei gusti e la mia passione per l’archeologia mediterranea. Mi ha chiamato per dirmi che era venuta in possesso di questo oggetto particolare, dagli Anni 60 appartenente ad una famiglia tedesca. Ho chiesto maggiori informazioni e documenti ma, purtroppo, non mi sono stati forniti. Come indizio ho solo il nome di una donna, la signora Rulhe di Berlino», racconta. La lastra in calcare duro ora è stata importata regolarmente in Italia e ha destato l’interesse anche della Soprintendenza dei beni archeologici, che ha avviato la procedura per dichiarare il reperto di Palmira un bene nazionale. 

APPASSIONATO  
Il professor Candiani è appassionato di archeologia «da sempre. Insegnavo diritto alle scuole medie e ho approfittato della prima finestra per andare in pensione – nel 1992, a 45 anni – per dedicarmi a tempo pieno alla mia galleria d’antichità», a San Mauro. Ma «la lastra di Palmira non è in vendita: fa parte della mia collezione privata e in questi primi mesi l’ho tenuta in salotto, a terra, sopra una coperta di velluto nero. Pur essendo grande solo 40 centimetri per 50 ci vanno due persone per spostarla».  
Lunedì sarà trasferita a Palazzo Saluzzo Paesana, dove verrà esposta al pubblico per la prima volta nella mostra «Antiche emozioni – Il passato guarda al futuro», organizzata dell’Associazione Piemontese Antiquari in collaborazione con Ascom. In esposizione, dal 7 al 10 aprile, ci saranno solo opere dal pedigree «molto particolare», come una banda cerimoniale copta del Secondo secolo di Marco Lombardo, sculture lignee bodhisattva di Ajassa e un’ancella in legno di Sicomoro di Saqqara di 2500 anni fa, anche questa di Candiani. Un tuffo nel passato per farsi avvolgere nel mistero e apprezzare uno dei pochi tesori rimasti di Palmira, da cui nelle ultime ore sono arrivate solo immagini di morte e distruzione.